<p>Le nuove sanzioni tributarie - Lattanzi</p>
Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

29/12/2024 - Profili abusivi della rivalutazione agevolata di partecipazioni

argomento: IRPEF - Legislazione e prassi

L’agevolazione prevista dall’art. 5 L. 448/2001, la cui definitiva stabilizzazione nell’ordinamento tributario è prevista nel disegno di legge di bilancio 2025, consente alle persone fisiche di incrementare il costo fiscale delle partecipazioni dietro il pagamento di un’imposta sostitutiva di ridotto ammontare. Pensata per favorire la mobilità dei titoli e garantire un immediato introito per l’Erario, la misura è sovente oggetto di contestazioni per abuso del diritto da parte dell’Agenzia delle Entrate in operazioni in cui il socio alieni le azioni rivalutate alla stessa società emittente. Si evidenzia la necessità di un intervento del legislatore onde limitare le incertezze e il contenzioso tributario.

PAROLE CHIAVE: abuso del diritto - rivalutazione partecipazioni


di Enrico Matano

1. La facoltà di incrementare il costo fiscale delle partecipazioni – ai fini della determinazione delle plusvalenze ex art. 67 TUIR – dietro il pagamento di un’imposta sostitutiva, introdotta dall’art. 5 L. 448/2001, riservata alle persone fisiche al di fuori dell’esercizio di un’attività d’impresa, è stata oggetto di numerose proroghe nel corso degli anni (sul tema v. G. Girelli, Il “buco nero” della rivalutazione di partecipazioni societarie e terreni ai fini delle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2019, II, 172; R. Casadei, La rivalutazione di aree e partecipazioni societarie, in Dir. prat. trib., 2008, I, 279). L’ultima è contenuta nell’art. 1, commi 52 e 53, L. n. 213/2023 che ne ha esteso la validità per le partecipazioni possedute al 1° gennaio 2024.

Nell’art. 5 del Disegno di legge di bilancio 2025 è prevista la stabilizzazione di tale agevolazione, la quale consentirà, in via permanente, di incrementare il costo fiscale delle partecipazioni, qualificate e non qualificate, mediante il pagamento un’imposta sostitutiva del 18% sull’intero valore rivalutato. Come in passato, il nuovo valore andrà determinato a seconda che la partecipazione sia, o meno, negoziata su mercati regolamentati. Esso sarà determinato, per le partecipazioni non quotate, come frazione del patrimonio netto della partecipata, sulla base di una perizia giurata di stima; per le società quotate, sulla base della media aritmetica dei prezzi di mercato del mese di dicembre dell’anno precedente, in conformità all’art. 9 TUIR.

La misura, oltre a favorire la mobilità del capitale e sostenere le dinamiche di mercato, garantisce all’Erario un introito immediato, anticipando parte del gettito che, in assenza di rivalutazione, risulterebbe differito sino al momento del realizzo della partecipazione (sulla ratio della rivalutazione fiscale, si v., da ultimo, Cass., 18 novembre 2024, n. 29597; Id., 23 ottobre 2024, n. 27499; C.G.T. di II grado del Veneto, 6 luglio 2022, n. 854).

L’introduzione a regime della misura offre quindi lo spunto per affrontare il tema delle frequenti contestazioni di abuso del diritto mosse dall’Agenzia delle Entrate con riguardo ad uno specifico tipo di operazione societaria che coinvolge, in prima battuta, proprio lo strumento della rivalutazione agevolata.

In particolare, sovente l’Agenzia delle Entrate qualifica come abusive – in quanto prive di sostanza economica e orientate al perseguimento di un vantaggio fiscale indebito – quelle operazioni in cui, dopo la rivalutazione agevolata, il socio alieni le proprie azioni alla stessa società emittente. Quest’ultima, utilizzando utili e riserve disponibili, provvede all’acquisto delle azioni proprie rivalutate, così consentendo al socio di neutralizzare la plusvalenza e di uscire dalla compagine sociale senza emersione di imponibile. Secondo l’Amministrazione finanziaria l’operazione dissimula un “recesso” e consente di eludere la disciplina impositiva dei redditi capitale, di cui all’art. 47, comma 7, TUIR, la cui operatività determinerebbe in capo al socio la tassazione del 26% sul corrispettivo ricevuto, dedotto il costo storico (valore di sottoscrizione o d’acquisto) della partecipazione, senza che, a tal fine, possa assumere rilievo il valore rivalutato, il quale, come detto, rileva solo ai fini delle plusvalenze finanziarie che sono incluse nei redditi diversi (Ag. Entr., Risposta a interpello n. 89/2021; sul tema si veda G.M. Committeri, A. Cerrai, Acquisto di azioni proprie precedentemente rivalutate e abuso del diritto, in Fisco, n. 31/2022, 3039 ss.).

Il presente contributo si propone di esaminare i profili di criticità di tali operazioni e le possibili scriminanti rispetto ad apparenti profili abusivi.

Non saranno approfondite in questa sede operazioni che coinvolgono società a responsabilità limitata. Per esse vige infatti un divieto di acquisto di quote proprie, ai sensi dell’art. 2474 c.c., salvo quanto previsto dall’art. 26 D.L. 179/2012 per le PMI costituite in forma di s.r.l., alle quali è consentito derogare al divieto esclusivamente in attuazione di piani di incentivazione, in virtù dei quali le quote acquistate vengono assegnate a dipendenti, collaboratori, amministratori o prestatori d’opera e servizi.

 

2. Per inquadrare la problematica, occorre in primo luogo esaminare la disciplina civilistica prevista in caso di recesso da società per azioni (sul tema v. G. Farina, Riflessioni sulla posizione del socio di società di capitali che esercita il recesso, in Riv. dir. impr., 2021, 662; M.B. Giurato – C. Vasta, Il recesso del socio di società per azioni, in Giur. comm., 2021, I, 179).

L’art. 2437 c.c. distingue tra cause di recesso inderogabili (come la modifica dell’oggetto sociale o lo spostamento della sede all’estero), cause derogabili dallo statuto e cause che possono essere previste liberamente nello statuto stesso.

Quando un socio esercita legittimamente il diritto di recesso, si avvia il procedimento di liquidazione della sua quota, regolato dall’art. 2437-quater c.c., che si articola in quattro fasi.

  1. i) In prima battuta gli amministratori offrano le azioni del socio recedente in opzione agli altri soci, proporzionalmente alle partecipazioni da questi ultimi possedute.
  2. ii) Se nessun socio esercita il proprio diritto di prelazione, gli amministratori possono collocarle sul mercato, anche mediante offerta pubblica, nel caso di azioni quotate su un mercato regolamentato.

iii) In caso di mancato collocamento sul mercato, sarà la società a dover acquistare le azioni proprie ricorrendo a utili e riserve disponibili, anche in deroga al limite ordinario di acquisto di azioni proprie (pari al quinto del capitale sociale, come previsto dall’art. 2357, comma 3, c.c.).

  1. iv) Se anche tali riserve non dovessero essere sufficienti, l’assemblea straordinaria dovrà deliberare la riduzione del capitale sociale, cui conseguirà l’“annullamento” delle azioni, o, in alternativa, lo scioglimento della società.

 

3. Dal punto di vista tributario, l’operazione civilistica di recesso appena descritta può far scattare due diversi regimi impositivi (in tema si v. F. Gallio – S. Mezzetti – A. Muradore, Recesso del socio attraverso l’acquisto di azioni proprie, in Corr. trib., 2014, 2265; G. Gavelli – G. Valcareghi, Aspetti problematici del recesso del socio di società di capitali, in Corr. trib., 2011, 3450).

Da un lato, in caso di recesso cui faccia seguito l’“annullamento” delle quote e la riduzione del capitale sociale – il riferimento è quindi all’ipotesi sub iv) del paragrafo che precede – l’operazione di recesso ricadrà nel perimetro dei redditi di capitale. L’art. 47, comma 7, TUIR dispone infatti che “le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso (...) costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate”. Questa norma presuppone che al recesso del socio consegua l’annullamento delle quote rimborsate, posto che essa fa chiaro riferimento alle azioni o quote “annullate”.

D’altro lato, in caso di rimborso attuato mediante cessione delle azioni ai soci o ai terzi – tali ipotesi, sub i) e ii) del paragrafo che precede, devono essere esaminate ed eventualmente attuate prima di procedere all’annullamento delle azioni – troverà applicazione la disciplina di cui all’art. 67 TUIR relativa alle plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di titoli partecipativi (c.d. capital gain).

La distinzione è stata accolta dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 52/E del 10 dicembre 2004, laddove al par. 2.2.1 è chiarito che “l’articolo 47, comma 7, del TUIR fa riferimento al recesso tipico che comporta l’annullamento delle azioni o quote” e  che – al contrario – “qualora il recesso avvenga con modalità diverse, ossia mediante acquisto da parte degli altri soci in proporzione alle loro partecipazioni, oppure da parte di un terzo (...) si configura un’ipotesi che va inquadrata più propriamente nell’ambito degli atti produttivi di redditi diversi di natura finanziaria, sempreché si tratti di cessioni a titolo oneroso”.

Rimane aperto il problema circa il trattamento impositivo dell’ipotesi sub iii) del paragrafo precedente, ovvero quei casi in cui, nell’ambito del recesso civilistico del socio, le azioni vengano acquistate dalla società con le proprie riserve, senza tuttavia essere oggetto di annullamento. Quest’ultima soluzione precede la possibilità di procedere all’annullamento dei titoli e alla riduzione del capitale.

A quest’ultimo riguardo nella Circolare n. 52/E si afferma che “l’articolo 47, comma 7, del TUIR fa riferimento al recesso tipico che comporta l’annullamento delle azioni o quote, compreso il caso in cui il rimborso venga effettuato previo acquisto delle azioni o quote da parte della società utilizzando gli utili e le riserve disponibili anche in deroga ai limiti previsti dall’articolo 2357, terzo comma, del codice civile, per l’acquisto di azioni proprie”.

La posizione espressa dall’Amministrazione – a parere di chi scrive – appare condivisibile, a condizione che il riferimento al rimborso della quota che sia attuato mediante acquisto di azioni proprie sia interpretato nel senso che questo deve pur sempre essere seguito dall’“annullamento” delle azioni stesse, presupposto per l’operatività del regime impositivo dei dividendi, conformemente alla lettera dell’art. 47, comma 7, TUIR.

Al contrario, si dovrebbe ritenere che il semplice acquisto della quota del socio uscente, cui però non segua una delibera di annullamento e riduzione del capitale, non determini l’applicabilità del regime impositivo dei dividendi bensì quello sui capital gain.

A questo riguardo, ad esempio, la C.T.P. di Napoli, con sentenza del 13 marzo 2014, n. 6551, ha osservato in modo condivisibile che “il legislatore non avrebbe fatto espresso riferimento all’annullamento delle azioni se non avesse inteso differenziare questa situazione (che, rispetto a quella di cessione “ordinaria”, se può essere indifferente per il socio non lo è certamente per la società, che va a ridurre il proprio capitale sociale) da quella del “mero” acquisto delle azioni da parte della società stessa”. La generalizzazione operata dalla Circolare sarebbe quindi “soltanto apparente, posto che anche l’acquisto da parte della società, se non è correlato ad un annullamento, non può che ricevere il medesimo trattamento fiscale di qualsiasi forma di alienazione a titolo oneroso” (C.T.P. di Napoli, 23 marzo 2014, n. 6552, cit.; cfr. M. Antonini, G. Zoppis, Realmente abusiva la cessione delle partecipazioni rivalutate?, in Fisco, n. 14/2021, 1329).

Va preso atto però che la formula utilizzata dall’Amministrazione finanziaria nel citato documento di prassi resta ambigua e pare ricomprendere nel perimetro della tassazione dei dividendi indistintamente tutti i casi di acquisto di azioni proprie.

 

4. Il problema sintetizzato si ripropone in quei casi in cui – tramite la contestazione di abuso del diritto ex art. 10-bis L. 212/2000 – l’Agenzia riqualifica come “recesso tipico” le operazioni in cui il socio, senza attivare la descritta procedura civilistica, dopo aver riallineato il valore fiscale delle proprie quote le alieni alla società, così determinando l’abbattimento della plusvalenza che ne derivi (sul tema v. M. Beghin, La cessione di partecipazioni affrancate e il “leveraged cash out” tra interpretazione della legge e abuso del diritto, in Boll. trib., 2020, 1551; Id., Acquisto di azioni proprie, abuso del diritto e pianificazione fiscale, in Boll. trib., 2018, 1207. Sull’abuso del diritto v. M. De Vita, Elusione fiscale e abuso del diritto: la codificazione di una comune clausola antiabuso, in Dir. prat. trib. int., 2018, 33; G. Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto, in Riv. dir. trib., 2016, 707).

In caso di contestazioni di abuso del diritto l’operazione realizzata non è opponibile all’Amministrazione finanziaria, e da ciò deriva l’imponibilità del corrispettivo ricevuto dal socio per l’alienazione dei titoli raffrontato con il costo storico della partecipazione (come reddito di capitale). Infatti, il valore riallineato può essere utilizzato solo ai fini delle plusvalenze finanziarie e non, invece, ai fini dei redditi di capitale (Ag. Entr., circ. 22 aprile 2005, n. 16).

Come detto, l’operazione è qualificata come abusiva – poiché priva di motivazioni economiche reali diverse dal vantaggio fiscale – nella misura in cui eluderebbe la ratio sottesa alla rivalutazione agevolata dei titoli, da individuarsi nella precisa volontà del legislatore di incentivare la circolazione delle partecipazioni attraverso cessioni a soggetti terzi, e non invece per garantire un azzeramento della tassazione al momento dell’uscita del socio dalla compagine societaria.

L’indebito vantaggio fiscale sarebbe pertanto costituito dal risparmio d’imposta derivante dal pagamento di un’imposta sostitutiva sul valore di perizia, in luogo della ritenuta a titolo d’imposta del 26% applicabile, in via ordinaria, sui redditi di capitale (cfr. Ag. Entr., Risposta a interpello n. 89/2021).

È bene sin d’ora ricordare che l’Agenzia delle Entrate, per riqualificare queste operazioni, è tenuta a utilizzare lo strumento tipico della richiesta di chiarimenti ex art. 10-bis, comma 6, L. 212/2000, pena l’annullabilità dell’accertamento (C.T.R. Veneto, 12 settembre 2022, n. 1048. Sui profili procedimentali dell’abuso, v. G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto: spunti di riflessione per una estensione ad altre forme di accertamento, in Dir. prat. trib., 2016, 1838).

 

5. È necessario formulare alcune considerazioni su questo orientamento di prassi.

Innanzitutto, va chiarito che esso appare corretto tutte le volte in cui, all’alienazione delle azioni alla società emittente – avvenga essa nell’ambito di un recesso tipico e quindi secondo le forme dell’art. 2437-quater c.c. oppure, più frequentemente, prescindendo da esse – segua in stretta contestualità temporale una delibera di annullamento delle stesse con conseguente riduzione del capitale sociale. In questa ipotesi si verifica effettivamente una modifica della struttura patrimoniale della società, con la definitiva estinzione delle partecipazioni rimborsate e una corrispondente distribuzione al socio, qualificabile come utile ai sensi dell’art. 47, comma 7, TUIR. Pertanto, qui l’imposizione dei dividendi è giustificata, in quanto le somme percepite dal socio non rappresentano un semplice realizzo da capital gain.

È però essenziale che le due operazioni, ossia l’alienazione diretta alla società e il recesso formale, si configurino come realmente alternative: come si vedrà nel seguito, in presenza di un divieto statutario di recesso, che impedirebbe in radice di porre una situazione di raffronto tra le due ipotesi, non sarebbe possibile qualificarle come alternative, escludendo così la configurabilità di un abuso.

Inoltre, per disconoscere l’efficacia della rivalutazione agevolata ed equiparare l’operazione ad un “recesso tipico”, è imprescindibile che l’Agenzia delle Entrate dimostri, con prove concrete, l’esistenza di un accordo elusivo tra il socio e la società, volto a ottenere un indebito vantaggio fiscale.

In proposito, la Corte di Cassazione è ferma nel richiedere la sussistenza di una volontà elusiva, preordinata all’ottenimento di un indebito vantaggio fiscale. Il risparmio fiscale, ancorché ottenuto attraverso schemi negoziali non “lineari”, non deve verificarsi come mero effetto accidentale, ma occorre che sia intenzionalmente ricercato e programmato dal contribuente, attraverso la manipolazione di strumenti giuridici leciti (Cass. Civ., Sez. V, 25 ottobre 2022, n. 31615).

Qualora non sia provata l’esistenza di un simile accordo – ad esempio, nel caso di mancata consapevolezza del socio che la società avrebbe poi annullato le azioni acquistate, confidando invece in una loro successiva rivendita per selezionare nuovi soci – si dovrebbe ritenere rispettata la ratio della norma sulla rivalutazione. Ciò, appunto, a condizione che il contribuente abbia agito in buona fede. In tale scenario l’intento elusivo verrebbe meno, e l’operazione risulterebbe coerente con le finalità proprie della rivalutazione, che mira a favorire la circolazione delle partecipazioni, senza traslare automaticamente sul contribuente un intento elusivo non dimostrato.

 

6. A conclusioni di segno opposto dovrebbe pervenirsi nei casi in cui, all’acquisto di azioni proprie previamente rivalutate (si ripete, avvenga esso nell’ambito di una procedura ex art. 243-quater c.c. o all’infuori di essa) non faccia seguito una delibera di annullamento e riduzione del capitale sociale.

In siffatti casi non sembra possibile invocare l’aggiramento – mediante l’abuso del diritto – del disposto dell’art. 47, comma 7, TUIR, posto che detta norma, testualmente, non è applicabile ai casi in cui non si verifichi l’annullamento.

In altre parole, in assenza dell’annullamento non si può ipotizzare un aggiramento di una norma che proprio detto annullamento presuppone (sul punto cfr. C.G.T. di primo grado di Udine, 8 febbraio 2023, n. 32, annotata da F. Gallio, L’acquisto di azioni proprie preceduto dalla rivalutazione delle stesse non è qualificabile come recesso tipico, in Fisco, n. 23/2023, p. 2290 ss.; C.T.P. di Vicenza, 6 luglio 2017, n. 696, che ha ritenuto legittima l’operazione di acquisto di azioni proprie previamente rivalutate in considerazione del fatto che la società acquirente non aveva proceduto all’annullamento delle stesse, essendo, detta circostanza, idonea ad escludere, in radice, l’assimilabilità con l’operazione di recesso “tipico”, su cui M. Antonini, G. Zoppis, Realmente abusiva la cessione delle partecipazioni rivalutate?, cit., 1329; più di recente C.G.T. II grado Emilia Romagna, 26 giugno 2024, n. 573 e C.G.T. II grado Liguria, 24 aprile 2024, n. 304).

In giurisprudenza, peraltro, si registra un orientamento di segno contrario (invero criticabile, alla luce delle considerazioni sopra esposte) secondo cui l’operazione risulta priva di sostanza economica e finalizzata ad ottenere un indebito vantaggio fiscale, anche in assenza di un annullamento immediato delle quote, se non risponde a una reale finalità di circolazione delle partecipazioni (C.T.R. Veneto, 24 marzo 2022, n. 476). Sarebbe, dunque, solo l’effettiva circolazione del titolo a determinare l’applicabilità del regime agevolato, e la sua semplice permanenza nel patrimonio societario sarebbe sufficiente a far scattare il regime di tassazione degli utili, ai fini della quale torna a rilevare il costo storico.

Anche aderendo a questa lettura estensiva, dovrebbe quantomeno dimostrarsi anche l’intento elusivo del socio e l’accordo con la società per abbattere la tassazione e favorirne la fuoriuscita dalla compagine sociale. In difetto di tale prova si andrebbe a penalizzare un contribuente che ha esercitato una propria legittima facoltà – quella appunto di rivalutare – senza concordare con la società il contestuale annullamento delle azioni. Non pare infatti possibile addebitare al socio un’elusione che di fatto è soltanto presunta e richiede, pertanto, di essere provata in concreto.

 

7. Esistono poi ipotesi in cui l’annullamento delle quote – come detto a nostro avviso ciò rappresenta un presupposto essenziale per l’operatività dell’art. 47, TUIR – non avviene contestualmente e nell’immediatezza dell’acquisto (ipotesi che darebbe motivo di sospettare un aggiramento del regime impositivo previsto per il recesso “tipico”) ma soltanto dopo il decorso di un certo arco di tempo rispetto al momento in cui la fuoriuscita del socio dalla compagine si è perfezionata (sia mediante cessione “diretta” delle azioni rivalutate, sia mediante l’attivazione della procedura ex art. 2437-quater c.c.).

Infatti, se le due operazioni sono ravvicinate, ancorché non contestuali, ciò potrebbe comunque indicare che l’acquisto è stato finalizzato principalmente alla distribuzione occulta di utili.

Al contrario, un intervallo di tempo più lungo, giustificato da esigenze organizzative o finanziarie della società, potrebbe suggerire che l’operazione rispondeva, quantomeno in origine, a motivazioni economiche sostanziali e non è volta esclusivamente al conseguimento di un vantaggio fiscale (così C.T.P. Napoli n. 6551/2014, cit.), che poi, per le più disparate ragioni, non sono state portate a termine, spingendo la società a decidere di annullare le azioni per evitare di mantenerle inutilmente nel proprio patrimonio, privandole di una reale funzione economica.

Ad esempio, il mantenimento dei titoli – poi annullati – nel patrimonio potrebbe essere sintomatico di un’intenzione di rivenderli in un secondo momento a soggetti selezionati, coerentemente con la ratio “circolatoria” dell’agevolazione.

Dovrà necessariamente procedersi con un’analisi caso per caso circa la potenziale abusività dell’operazione, indagando quale sia in concreto la ragione e la finalità di essa, considerata nel suo complesso.

L’operazione risulterà non contestabile quando tesa a realizzare ragioni extrafiscali apprezzabili e idonee a conferire sostanza economica all’acquisto, ad esempio quando esso sia stato – quantomeno in origine – finalizzato ad assicurare, anche in prospettiva, il trasferimento della partecipazione, magari per la realizzazione di programmi di stock option o di coinvolgimento di nuovi soci (C.G.T. II grado Veneto, 854/2022, cit.).

Ancora, l’acquisto di azioni proprie potrebbe costituire una proficua forma di investimento delle eccedenze patrimoniali disponibili della società. Nel caso di società quotate in borsa, l’acquisto e la vendita di azioni proprie può essere un mezzo efficace per stabilizzare le quotazioni e neutralizzare eventuali manovre speculative (G. F. CAMPOBASSO, Manuale di Diritto Commerciale. Diritto delle società, Milano, 2019, 242).

Tra i criteri per individuare potenziali abusi, poi, rientra sicuramente l’acquisto di azioni proprie tramite un soggetto interposto, formalmente distinto ma collegato alla società o agli altri soci originari. In siffatti casi il socio che vuole recedere procede alla cessione delle azioni a un soggetto terzo formalmente distinto, che successivamente le trasferisce alla società stessa che procede ad annullarle, anche a seguito di operazioni straordinarie (come, ad esempio, una fusione per incorporazione). Questo schema potrebbe essere considerato abusivo, in quanto volto a nascondere la reale finalità distributiva dell’operazione.

Ai fini dell’indagine potrà anche la classificazione contabile delle azioni proprie nel bilancio societario. Secondo l’OIC 21, essa dipende dalla loro destinazione: se destinate a permanere a lungo termine, tali azioni sono registrate tra le immobilizzazioni finanziarie (B.III.4); se destinate ad annullamento o vendita entro l’esercizio successivo, vanno iscritte tra le attività finanziarie non immobilizzate (C.III.5). Tale scelta potrebbe riflettere la volontà della direzione societaria e la capacità della società di mantenerle nel tempo (Organismo Italiano di Contabilità, Principio contabile 21, Partecipazioni, p. 4).

Infine, come anticipato, tra i criteri rilevanti figura la concreta praticabilità del recesso ordinario, nei casi in cui lo statuto preveda un divieto di recesso, limitandolo alle sole ipotesi inderogabili stabilite dall’art. 2437 c.c. (circostanza che, in effetti, si riscontra frequentemente nella prassi). Qui il socio potrebbe cedere le azioni rivalutate alla società unicamente seguendo le regole generali sull’acquisto di azioni proprie, essendogli precluso il diritto di recedere dalla società. In tali casi, l’impossibilità di ricorrere al recesso rende discutibile la configurazione di un abuso, anche in presenza di un annullamento dei titoli. Secondo un condivisibile orientamento dottrinale e giurisprudenziale non sussisterebbe alcun aggiramento del regime fiscale del recesso, essendo quest’ultimo un’alternativa esclusa a monte (P. Formica, C. Guarnaccia, Acquisto di azioni proprie preceduto da rivalutazioni: non c’è abuso del diritto, in Corr. trib., 2021, 189. Si veda anche la recente sentenza della C.G.T. II grado Veneto, 17 giugno 2024, n. 516, secondo cui “l’impraticabilità oggettiva della soluzione prospettata dall’Ufficio fa venir meno la stessa configurabilità della contestata elusione/abuso del diritto che, al contrario, presuppone invece la sussistenza di una alternativa negoziale alla quale il Contribuente possa far riferimento e che, nella specie, risulta invece del tutto assente”).

 

8. In conclusione, la stabilizzazione della rivalutazione agevolata delle partecipazioni prevista dall’art. 5 L. 448/2001, nonostante l’apprezzabile finalità perseguita, rischia di alimentare ulteriori contestazioni, data la tendenza dell’Agenzia delle Entrate ad ampliare il perimetro delle operazioni soggette a tassazione come utili.

Per dare una soluzione al problema sintetizzato nel presente contributo, a parere di chi scrive, è possibile elaborare alcune soluzioni tecniche, le quali tuttavia richiederebbero di essere introdotte mediante un espresso intervento legislativo.

In primo luogo, sarebbe auspicabile l’introduzione di una norma che chiarisca, espressamente, che non configurano abuso del diritto operazioni di cessione delle azioni rivalutate laddove i titoli rimangano nel patrimonio della società per un periodo temporale minimo o vengano cedute a terzi.

In un’ottica diametralmente opposta, in secondo luogo, si potrebbe vincolare l’operatività dell’agevolazione alla cessione delle partecipazioni rivalutate solo a terzi, a pena di decadenza, con esclusione delle operazioni di rimborso o riacquisto da parte della stessa società.

In terzo luogo, come soluzione intermedia, si potrebbe introdurre un sistema più articolato per cui, laddove l’intenzione del socio sia, già in origine, quella di cedere le partecipazioni rivalutate alla stessa società emittente, sia previsto un obbligo di comunicazione preventiva, volto a dichiarare le modalità operative della cessione, e un obbligo per la società di rilasciare una certificazione che attesti la destinazione delle azioni riacquistate. Questo meccanismo consentirebbe un monitoraggio più efficace da parte dell’Agenzia delle Entrate, e una chiara distinzione delle responsabilità in caso di contestazioni. Eventualmente si dovrebbe anche stabilire, per legge, che l’eventuale maggior tributo dovuto e le sanzioni siano imputati esclusivamente alla società, qualora essa non rispetti l’impegno a destinare le azioni conformemente alla finalità “circolatoria” della rivalutazione agevolata. In tal modo, si eviterebbe di penalizzare il socio per condotte non più sotto il suo controllo.

Tali soluzioni consentirebbero di ridurre le ambiguità interpretative, prevenendo gli abusi e limitando il contenzioso tributario in questo specifico settore.