argomento: Agevolazioni - Giurisprudenza
Il patrimonio culturale, inteso nella sua dimensione classica, presenta in Italia molteplici peculiarità, delle quali si deve tener conto nel percorso di ricerca centrato sul sistema delle misure finanziarie e tributarie destinate alla sua tutela e promozione. Muovendo dall’analisi delle politiche di conservazione di tale patrimonio, l’obiettivo è quello di trovare nuovi strumenti di finanziamento, sia mediante le più moderne forme di compartecipazione tra pubblico e privato sia mediante nuove e specifiche misure tributarie.
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: patrimonio culturale - agevolazioni fiscali - finanza pubblica - art bonus - tassa d
di Lorenzo del Federico
Ciononostante per il patrimonio culturale si fa poco, sia a livello internazionale, sia a livello Europeo, sia nella maggior parte degli Stati e certamente in Italia.
Le iniziative dell’UNESCO (a prescindere dalle avvisaglie della sua crisi istituzionale) si disperdono su variegati fronti di eccessiva ampiezza, le politiche dell’Unione Europea sono impantanate sul tema degli equilibri finanziari e subiscono l’impatto negativo del c.d. divieto di aiuti di Stato, gli interventi degli Stati sono caratterizzati da specifiche esigenze nazionali e da costanti contingenze politico-finanziarie.
Nonostante i segnali di cambiamento e di grande impegno che hanno caratterizzato negli ultimi anni il MIBAC e l’azione del Ministro Franceschini, l’Italia attraversa gravi difficoltà, schiacciata dalla carenza di risorse e dall’enormità del patrimonio culturale nazionale, certamente stimabile –da tutti i punti di vista- come il più importante al mondo.
Nel dibattito nazionale ed internazionale l’attenzione per il patrimonio culturale è stata ridestata dal forte appeal e dal vorticoso sviluppo delle così dette industrie creative, ed in primo luogo dell’industria audio visiva, cui si è affiancata la modernizzazione del diritto d’autore, la promozione dell’arte contemporanea, l’industria del design, le misure a favore degli artisti e dei creativi ecc. (Caves, Creative industries. Contracts between arts and commerce, Cambridge (Mass.)-London, 2000; per l’Italia v. MiBAC, Libro bianco sulla creatività, a cura di W. Santagata, Roma, 2008).
Ma tutte queste sollecitazioni non aiutano il consolidamento ed il rilancio delle politiche per il patrimonio culturale inteso in senso classico, anzi, tal volta rischiano di essere fuorvianti o comunque di deviare risorse essenziali. Uno scenario del genere è ancor più preoccupante in Italia, laddove l’enormità del patrimonio culturale classico pone questioni prioritarie ed imprescindibili.
E’ innegabile che politiche e programmi organici di sviluppo dell’economia della cultura - centrata sulla produzione di cultura e sulle industrie creative - possano creare un circuito virtuoso per tutte le diverse componenti, ed anche per il classico patrimonio culturale, ma lo scenario politico-istituzionale Italiano non sembra propizio, quandanche si riscontrino negli ultimi anni un notevole impegno del MIBAC ed il riaccendersi dell’attenzione dei policy maker e dell’opinione pubblica sul tema. Pertanto vanno considerate anche le iniziative nazionali ed Europee a favore delle c.d. industrie creative, seppure ritenute meramente collaterali rispetto alla questione centrale e prioritaria della tutela e promozione del patrimonio culturale.
Sul versante della finanza pubblica la ristrettezza delle risorse obbliga ad individuare delle priorità, ponendo un argine al dilagante panculturalismo, che tende a porre sullo stesso piano fenomeni culturali molto diversi tra di loro, e soprattutto –come si avrà cura di dimostrare- caratterizzati da connotazioni giuridiche, economiche e finanziarie ben differenziate. Il panculturalismo porta ad una dispersione delle risorse pubbliche, che viceversa vanno concentrate su obiettivi strategici.
Senza entrare nel merito delle politiche culturali, in questa sede l’opzione di fondo è chiara e netta.
Si intende dare un contributo alla tutela ed alla promozione del c.d. patrimonio culturale classico - inteso come patrimonio materiale, immobiliare e museale, pubblico e privato - in ragione della priorità della conservazione dell’enorme patrimonio storico, della evidente sinergia con il recupero e la promozione del contesto urbano, per un verso, e del contesto ambientale e paesaggistico, per altro verso; ma soprattutto in ragione delle potenzialità commerciali e turistiche che questo fondamentale settore del patrimonio culturale mostra di avere in Italia.
Pertanto, una volta effettuata questa scelta si fondo, si può prescindere da tutte le questioni qualificatorie relative alla collocazione nel patrimonio culturale lato sensu, dell’artigianato, delle tradizioni popolari, del teatro, della letteratura, della musica, dell’industria audiovisiva, dell’istruzione, dello sport ecc.
Si tratta di grandi temi su cui è impegnata l’UNESCO, ben noti agli studiosi (Throsby, The economics of cultural policy, Cambridge University Press, Cambridge, 2010; Goto, Defining Creative Industries, in AA.VV., Tax Incentives for the Creative Industries, Ed. S. Hemels – K. Goto, Spinger, Singapore, 2017, p.11), ma dai quali in questa sede è consentito prescindere, concentrando le attenzioni sul patrimonio culturale (Italiano) inteso nella sua dimensione classica, come patrimonio materiale, immobiliare e museale, pubblico e privato. Scelta agevolata da una solida legislazione nazionale che su questi profili risulta alquanto esaustiva ed affidabile nei principali Paesi dell’Unione Europea, e di certo in Italia, ove è raccolta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Leg.vo 22 Gennaio 2004, n. 42).
Il tema viene affrontato dal punto di vista delle risorse pubbliche destinate alla tutela ed alla promozione del patrimonio culturale, con riferimento sia ai finanziamenti sia alle misure tributarie.
Questa scelta non intende certo porre in secondo piano il profilo delle risorse private, ma è chiaro che le risorse pubbliche hanno un ruolo fondamentale, soprattutto in Stati, come l’Italia, in cui la parte più significativa del patrimonio culturale appartiene alla sfera pubblica e da essa è gestito. Inoltre è chiaro a tutti che la gran parte delle politiche culturali è espressione di politiche pubbliche e che le politiche pubbliche orientano l’azione dei privati. Si tratta piuttosto di creare le più opportune condizioni per favorire gli investimenti privati nella tutela del patrimonio culturale, sia mediante misure tributarie di favore (o quantomeno non penalizzanti, come talvolta accade), sia mediante il giusto riconoscimento del mecenatismo e lo sviluppo di strumenti di compartecipazione fra pubblico e privato (AA. VV., L’intervento dei privati nella cultura, a cura di A. Di Majo – F. Marchetti, P.A. Valentino, Firenze – Milano, 2013).
L’Italia presenta molteplici peculiarità, tra cui spiccano i gioielli delle città d’arte Italiane, veri e propri macro - musei a cielo aperto, liberamente accessibili da tutti, in cui è il tessuto urbano ad assumere il ruolo del protagonista. Ma si tratta di un tessuto urbano composto prevalentemente da patrimonio immobiliare privato, la cui conservazione e manutenzione assume rilievo pubblico. E di certo non sono da meno, per pregio –e criticità di tutela- i gioielli archeologici e naturalistici disseminati nelle campagne e nei parchi di tutto il Paese.
In Italia emerge quindi una struttura composita del patrimonio culturale immobiliare pubblico e privato, con importanti presenze museali, terreno naturale per lo sviluppo di industrie turistiche, culturali e creative.
Pertanto ferma restando l’importanza della sfera privata e delle risorse private nella tutela, e soprattutto, nella promozione del patrimonio culturale, questa ricerca si incentra sul versante pubblicistico, dei finanziamenti e delle misure tributarie.
Un dato indubitabile, stando almeno all’esperienza Italiana, è quello della inadeguatezza delle risorse pubbliche per fronteggiare le impellenti necessità della tutela del patrimonio culturale.
Si tratta quindi di razionalizzare e rendere più efficiente il sistema di tutela, ma al tempo stesso di razionalizzare, rendere più efficiente ed incrementare il sistema di finanziamento.
Ecco allora che si delinea un percorso di ricerca centrato sul sistema dei finanziamenti pubblici e delle misure tributarie per la tutela di quella importante parte del patrimonio culturale, costituito dal patrimonio immobiliare e museale.
La negligenza e la distruzione di cultura sono politiche negative. Le politiche di conservazione e di produzione di cultura hanno carattere positivo. Da un altro punto di vista distruzione, negligenza e conservazione sono politiche che guardano al passato, legate sia positivamente sia negativamente al patrimonio culturale. La produzione è una politica orientata al futuro, il motore per lo sviluppo di nuove industrie culturali.
La scelta di fondo che orienta questa ricerca è quella di concentrarsi prioritariamente sulle politiche finanziarie e tributarie di conservazione del patrimonio culturale, cercando di trovare i meccanismi e favorire le condizioni per l’auspicabile innesto delle politiche di produzione della cultura.
Le politiche di conservazione vanno tuttavia declinate in ottica moderna, non solo secondo l’accezione classica della tutela, della difesa e del mantenimento, ma anche in termini di gestione e valorizzazione adeguate dell’opera d’arte: la conservazione deve essere a regola d’arte e anche gli aspetti di buona gestione e valorizzazione devono orientare la politica verso esiti di qualità, con attenzione alle preferenze dei consumatori di cultura. In epoca di crisi finanziaria conservare senza valorizzare risulta velleitario (Casini, Valorizzazione e gestione, in AA.VV., Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, a cura di C. Barbati - M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, 191 ss., e Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Napoli, 2017, 135 ss.).
L’esame delle risorse pubbliche destinate a finanziare la tutela del patrimonio culturale richiede in primo luogo una fase ricostruttiva per fare chiarezza sul sistema.
In questa prima fase il problema principale è quello della definizione del quadro, della tipologia delle risorse, dell’entità ecc. Potranno emergere proposte per la razionalizzazione del sistema di finanziamento, il recupero di efficienza ecc. Ma si tratta della parte meno rilevante, in quanto l’obiettivo principale della ricerca è quello di trovare nuove soluzioni e nuovi strumenti di finanziamento, sia mediante le più moderne forme di compartecipazione tra pubblico e privato sia mediante nuove e specifiche misure tributarie.
La seconda fase è certamente la più innovativa e la più difficile.
Sul piano della teoria della finanza pubblica
Si tratta di capire:
-quali sono le ragioni di fondo per cui gli Stati debbono finanziare la tutela del patrimonio culturale;
-quali sono le corrette metodologie per conformare gli strumenti attuativi alle ragioni di fondo;
-quali sono i pregi ed i difetti dei vari strumenti attuativi di finanziamento, comparando sussidi e benefici tributari.
Successivamente vanno esaminati:
-le linee guida e le iniziative dell’UNESCO, dell’OECD e dell’Unione Europea;
-l’adeguatezza in termini di coordinamento e coerenza delle politiche finanziarie e tributarie nella legislazione interna;
-la ratio e la tipologia dei sussidi (finanziati con la fiscalità generale);
-la ratio e la tipologia dei benefici tributari;
-i margini per l’elaborazione di tributi speciali;
-il regime finanziario e tributario degli enti gestori;
-il regime finanziario e tributario delle forme di compartecipazione tra pubblico e privato;
-i vincoli Europei configurabili in tema di aiuti di Stato;
-le forme di attrazione del mecenatismo internazionale;
-le sinergie finanziarie e tributarie tra turismo sostenibile e fruizione del patrimonio culturale.
La questione sembra retorica ed in gran parte lo è. Equivale a chiedersi per quali ragioni gli Stati debbono finanziare la tutela dei propri cittadini.
Eppure la questione consente di porre in evidenza il rapporto fra uno Stato ed il patrimonio culturale degli altri Stati (tema alquanto dibattuto a livello dell’UNESCO), ma soprattutto guida la ponderazione tra pubblico e privato nelle politiche di tutela del patrimonio culturale ed ancora più profondamente porta a cogliere il tema centrale delle esternalità.
Lo zoccolo duro delle giustificazioni è certamente politico ed ideologico; gli studiosi hanno evidenziato specifici obiettivi delle politiche culturali: -nella promozione dell’eccellenza, dell’innovazione e dell’accessibilità; -nel riconoscimento e nella celebrazione dell’identità nazionale, regionale o locale; -nella salvaguardia della continuità; - nella promozione della diversità.
Quando queste giustificazioni politiche ed ideologiche assumono la natura di valori giuridici, mediante l’elaborazione di principi generali, norme costituzionali, norme di legge ecc. prende corpo una dimensione giuridica degli interessi tutelati.
Nell’esperienza Italiana risulta centrale il ruolo dell’art. 9 della Costituzione, secondo cui “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Sussistono tuttavia anche profonde ragioni economiche, ampiamente indagate per quanto riguarda il ruolo delle industrie culturali e creative, implicitamente presupposte per quanto riguarda la tutela del patrimonio culturale.
Nella prospettiva della ricerca di punti di contatto tra studi economici e studi giuridici l’asse ruota intorno alla teoria delle esternalità ed alla legge di Baumol.
Come è noto per esternalità positive o negative si intende l’insieme degli effetti esterni (detti anche economie o diseconomie esterne) che l’attività di un soggetto esercita, al di fuori delle transazioni di mercato, sulla produzione o sul benessere di altri soggetti. Quando l’azione del soggetto agente determina benefici per altri, senza che il primo ne riceva un compenso, si parla di esternalità positive per questi altri soggetti o per l’economia nel suo complesso; laddove invece l’azione provoca costi per altri (costi che il soggetto agente non sopporta), si parla di esternalità negative (diseconomie esterne).
Le esternalità possono essere prodotte o subite da imprese (produttori) o da individui (consumatori). Come conseguenza di esternalità negative, l’attività privata (produzione/consumo) cui è associata la diseconomia esterna è spinta a un livello superiore a quello socialmente efficiente (eccesso di produzione/consumo); in presenza di esternalità positive, invece, l’attività produttiva è spinta a un livello inferiore (deficit di produzione/consumo). La presenza di esternalità determina pertanto una divergenza fra aspetto privato e aspetto sociale dei costi e dei benefici, fenomeno che è causa del “fallimento del mercato”, rendendo così impossibile a un sistema di concorrenza perfetta di determinare spontaneamente la migliore allocazione delle risorse produttive e il massimo benessere degli agenti economici.
Si tratta di temi tipici dell’economia e del diritto dell’ambiente, che si ripropongono analogamente nell’economia e nel diritto del patrimonio culturale (Baumol, Application of welfare economics, in VV.AA., A Handbook of Cultural Economics, a cura di R. Towse, Edward Elgar, Cheltenham, 2011, p. 9).
Si consideri ad es. un’impresa commerciale che con i suoi impianti tecnologici (antenne, tubi di scarico ecc.) deturpa il paesaggio di una città d’arte, non considera tali danni tra i suoi costi, ma questi certamente rappresentano costi per la collettività, degradando il tessuto culturale della città e depotenziando l’attrattività per le altre attività commerciali (soprattutto per quelle a vocazione turistico - culturale). In questo caso quindi i costi sociali sono maggiori di quelli privati. All’opposto, il recupero, il mantenimento e l’impiego produttivo appropriato di un palazzo storico in una città d’arte, dà un vantaggio scarso all’impresa che si impegna in una tale percorso (sarebbe più conveniente localizzare l’attività in un quartiere moderno e funzionale), ma realizza un beneficio elevato per la collettività, salvaguardando il tessuto culturale della città e favorendo l’avvio e lo sviluppo di attività commerciali collaterali (soprattutto a vocazione turistico-culturale). Ma gli esempi potrebbero essere infiniti.
Vi sono poi altri fattori economicamente rilevanti. Basti pensare all’impatto del patrimonio culturale sui vari settori dell’economia, dalla ristorazione, all’attività alberghiera, dal turismo, allo spettacolo, dall’edilizia specializzata all’artigianato ecc. Si tratta di un palese esempio di effetto moltiplicatore.
E’ banale evocare l’impatto commerciale e turistico alberghiero del pubblico che visita un museo rispetto al territorio di riferimento. Le attività commerciali, hotel, ristoranti, bar ecc., godono di rilevanti esternalità positive derivanti dal pubblico dei visitatori musei, ma ovviamente i musei non hanno la possibilità di ottenere compensazioni dalle imprese che fruiscono questi benefici.
Più in generale dalla tutela del patrimonio culturale deriva la promozione dell’immagine e del “marchio” nazionale, con la conseguenziale promozione del turismo e delle esportazioni.
Per quanto riguarda specificamente i beni pubblici (o beni collettivi) facenti parte del patrimonio culturale ben difficilmente il mercato potrà funzionare in modo ottimale, proprio a causa delle caratteristiche di questi beni. Invero si tratta di beni a fruizione collettiva, non individualizzabile –cioè di beni “non escludibili” dalla libera fruizione (not -excludable)- e non consumabili (not -rival), nel senso che la fruizione del bene da parte di un soggetto non ne riduce la possibilità di fruizione da parte di altri. L’esempio emblematico è quello dei luoghi di pregio delle città d’arte.
Ovviamente merita un cenno specifico la legge di Baumol (c.d. malattia dei costi) (Baumol - Bowen, Performings Arts: the Economic Dilemma, 1996, New York, MIT Press), secondo cui il costo unitario del lavoro aumenta di più nei settori a bassa crescita di produttività (come quello artistico e culturale) che in quelli ad alta crescita di produttività (come le industrie tecnologicamente avanzate), per cui l’intervento pubblico redistributivo si rende necessario per sostenere il primo gruppo di settori mediante risorse provenienti dal secondo gruppo. Esempi classici sono quelli del restauro, dei servizi museali tradizionali, della musica dal vivo, del teatro ecc.
Si tratta di argomenti sufficienti per spiegare le ragioni per cui gli Stati debbono finanziare la tutela del patrimonio culturale. Ma la questione più critica non riguarda l’identificazione di queste ragioni di fondo (ormai ben note), quanto piuttosto per un verso l’elaborazione e la pratica attuazione delle corrette metodologie per strutturare adeguati strumenti attuativi e per l’altro l’individuazione dei pregi e difetti delle varie misure finanziarie e tributarie.
Tuttavia emergono dati economici importanti e sprazzi di giustificato ottimismo.
In Italia il macrosettore turistico-culturale è caratterizzato da un valore aggiunto di oltre 170 miliardi di euro, con un contributo al PIL dell’11,8% ed un impatto sull’occupazione del 12,8% (circa due milioni di persone), con concrete prospettive di crescita.
Negli ultimi anni si è fatta strada una profonda consapevolezza dei problemi del turismo culturale e del patrimonio culturale, hanno preso corpo significative reazioni istituzionali, tra le quali spicca il Piano Strategico del Turismo- MIBACT 2017-2022, e soprattutto, per quanto riguarda il nostro tema, è stato introdotto l’importante strumento tributario dell’art bonus.
Concentrando la nostra attenzione sul profilo del sistema di finanziamento della tutela del patrimonio culturale Italiano le questioni principali riguardano:
-la tipologia, l’efficacia e l’efficienza dei sussidi;
-la tipologia, l’efficacia e l’efficienza delle agevolazioni tributarie, tenendo conto del loro fondamento da ricondurre all’art. 9 della Costituzione che “impone” la tutela del patrimonio culturale, evidenziandone la specificità, e solo in subordine all’art. 53 della Costituzione, che modula il prelievo tributario in base alla capacità contributiva ed alle esigenze extrafiscali;
-la struttura ed il funzionamento dell’art bonus, l’individuazione delle sue criticità e le proposte per razionalizzarlo e potenziarlo;
-il mecenatismo, per il quale vanno create condizioni favorevoli, dovendosi superare la selva oscura di limiti, vincoli ed ostacoli vari frapposti dalla legislazione Italiana;
-il regime tributario delle varie articolazioni soggettive cui è riferibile la proprietà e la gestione del patrimonio culturale pubblico;
-il regime tributario del patrimonio immobiliare privato;
-la gestione dei musei e dei parchi archeologici, che presenta un regime fiscale estremamente confuso e penalizzante;
-le città d’arte, il cui studio, dal punto di vista finanziario, richiede particolare attenzione al federalismo fiscale ed alla finanza locale (Tosi, La fiscalità delle città d’arte. Il caso del comune di Venezia, Padova, 2009);
-lo sviluppo di politiche volte a valorizzare le sinergie tra tutela del patrimonio culturale e turismo, indi il regime tributario del turismo e delle imprese turistiche a vocazione culturale;
-il nuovo regime delle imprese culturali e creative, approvato dalla legge di stabilità 2018 (art. 1, commi da 57 a 60, L. 27 dicembre 2017, n. 205).
Tuttavia troppo spesso nel nostro Paese la Legislazione e l’azione amministrativa trascurano l’ordinarietà, radicalizzando le risposte a situazioni che –per cronica disattenzione e trascuratezza- finiscono con l’assumere i connotati della straordinarietà, dell’urgenza improcrastinabile, del clamore mediatico ecc. Da questo punto di vista la tutela del patrimonio culturale presenta notevoli similitudini con la tutela del territorio: disattenzione costante al rispetto dei vincoli idrogeologici, antisismici, di corretta gestione dei rifiuti, cui si rimedia con strumenti emergenziali quando si verificano situazioni di straordinaria gravità, calamità naturali, sinistri ambientali, mala gestio cronicizzata ecc.
Accade così che le emergenze caratterizzanti la tutela del patrimonio culturale finiscano con il frustrare l’analisi e la metodologia scientifica, risultando spesso fondate su scelte contingenti ed improvvisate, su ci si innestano strumentalizzazioni demagogiche e sterili polemiche politiche.
Di tutto ciò è buon esempio il tema delle tasse d’ingresso nelle città d’arte.
Nel dibattito politico istituzionale Italiano ciclicamente si pone il tema dell’introduzione di tasse d’ingresso volte a moderare l’afflusso dei turisti giornalieri nelle città d’arte.
Si rammenta che durante il Governo Berlusconi, nel 2006, il Sottosegretario di Stato con delega al turismo culturale, On.le Nicola Bono rese un apposito comunicato stampa, nel quale ebbe a dichiarare la sua “forte contrarietà nei confronti della incredibile proliferazione di ticket, tasse e balzelli di ogni tipo per l’accesso a città d’arte, a piccole isole, a spiagge e a qualsivoglia altro luogo turistico significativo…”.
Tuttavia tale contrarietà non era basata su uno studio conoscitivo, così come non erano basate su alcuna base scientifica le censurate “emergenti forme di odioso sfruttamento nei confronti dei turisti” che andavano dando corpo al proliferare di “tasse fai da te”.
Un primo passo è stato compiuto nel 2009 con il rapporto “Il turismo delle città d’arte: caratteristiche, tendenze e strategie di sviluppo”, promosso dalla Presidenza del Cons. dei Ministri- Dipart. per lo sviluppo e la competitività del turismo, ed elaborato dall’Osservatorio Nazionale del Turismo. Ma è bene chiarire che al tema delle tasse d’ingresso sono state dedicate poche righe, giacché il focus del rapporto era costituito dal mercato del turismo nelle città d’arte; la normativa di riferimento (art. 103 del Codice dei beni culturali, D.Lgs. n. 42/2004) non ha mai suscitato interesse concreto e tanto meno ha dato corpo ad applicazioni significative quale imposizione moderatrice nell’accesso a siti congestionati.
Quando nel 2017 il Ministro Dario Franceschini rende un comunicato stampa, con il quale annuncia l’imminente definizione di un protocollo di collaborazione con le città d’arte per la gestione dei flussi turistici, e ribadisce la contarietà del Ministero ai ticket d’ingresso, la situazione era immutata. Nell’ottica della promozione di un turismo sostenibile nelle grandi città d’arte il Ministro ribadisce la tralaticia opinione secondo cui “far pagare i ticket d’ingresso è un errore”, pur dichiarandosi propenso ad interventi per “regolamentare l’acceso in luoghi di particolare richiamo attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie”, mediante un vero e proprio “contingentamento”.
E’ quindi evidente che il tema dei ticket d’ingresso alla città d’arte è un tema caldo e di attualità, ma il relativo dibattito risulta alquanto sterile, in mancanza di un adeguato substrato conoscitivo e sulla base di una normativa che ha avuto scarsa attuazione. A tutt’oggi nessuna iniziativa istituzionale è stata dedicata all’argomento, eppure sul campo l’esigenza resta viva come risulta dalle aspettative dei Comuni interessati tra cui spicca il ruolo attivo assunto dal Comune di Venezia nell’aprile 2017, sulla spinta dell’UNESCO che ha espresso profonde riserve sulla salvaguardia della città storica (v. infra).
Ciononostante la questione stenta ad assumere concretezza.
Con la legge 30 dicembre 2018, n. 145, relativa al “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale” si è assistito ad un clamoroso, quanto estemporaneo ed improvvisato, passo in avanti.
Dalle nebbie è venuto fuori il comma 1129, dell’art. 1, secondo cui “il comune di Venezia è autorizzato ad applicare, per l’accesso, con qualsiasi vettore, alla Città antica e alle altre isole minori della laguna, il contributo di cui all’articolo 4, comma 3-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, alternativamente all’imposta di soggiorno di cui al comma 1 del medesimo articolo, entrambi fino all’importo massimo di cui all’articolo 14, comma 16, lettera e), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122”.
Quindi, abbandonando la base normativa naturale (art. 103 del Codice dei beni culturali, D.Lgs. n. 42/2004), limitando la facoltà impositiva al solo Comune di Venezia (città antica ed altre isole minori) e configurando il ticket come tassa di sbarco (gicchè ad essa fanno riferimento i richiami normativi), è stata compiuta una scelta ex abrupto, poco meditata, limitata ad una sola città d’arte, ma soprattutto impropria sul piano funzionale e scevra di incognite.
Eppure il collaterale tema del road pricing (art. 7 comma 9, Codice della strada) ha fatto dimostrato, prima nelle esperienze straniere e poi in Italia, come sia necessario svolgere compiute indagini preliminari, indispensabili per sensibilizzare le comunità locali, il sistema turistico, il mondo degli affari ecc., così da porre le basi culturali e conoscitive per la buona riuscita della misura.
Insomma il timore é che la giusta esigenza di introdurre ticket d’ingresso alle città d’arte sia frettolosamente e parzialmente affrontata in una logica contingente che finisca con il minarne alla base l’accettabilità e l’efficienza, finendo con il dare ragione ai preconcetti ideologici, che danno corpo ad una contrarietà aprioristiche.
Certo è che si dovrà tener conto delle peculiarità Italiane sotto i molteplici profili della scarsezza delle risorse finanziarie pubbliche, della enormità del patrimonio culturale, della estrema farraginosità ed inadeguatezza dei suoi strumenti di gestione e, da ultimo, del trend politico istituzionale orientato a ridimensionare le politiche tributarie promozionali ed a ridisegnare il sistema tributario in termini di aliquote più basse e proporzionali (flat tax e simili…).